Paola Gentile - 3 marzo 2022
Chi era Enrico De Pedis, alias Renatino: la sua storia nella banda della Magliana
Considerato il più scaltro dei membri della banda, investì i proventi criminali in investimenti legali.
Uno dei boss di spicco della banda delle Magliana, Enrico De Pedis, alias Renatino, meglio noto come il Dandy di Romanzo criminale, “rivive” in una commedia dai contorni amari interpretata da Edoardo Leo.
“Non ci resta che il crimine” è la storia di un gruppo di amici romani che per sbarcare il lunario organizza tour nella Roma criminale. Tappa obbligata: la Magliana, teatro della famigerata banda che negli anni ’80 divenne il centro nevralgico di tutte le attività criminali della zona, talmente potente da gareggiare con mafia, camorra e ‘ndrangheta.
Oltre ad innalzarsi a rete di relazioni pericolose che andavano dai gruppi “neri” fino al Vaticano, passando per il crac del Banco Ambrosiano.
Enrico De Pedis venne ucciso il 2 febbraio 1990, in via del Pellegrino, poco distante da Campo de’ Fiori, all’età di 36 anni.
Enrico De Pedis: come inizia la sua storia criminale e l’ingresso nella banda
Nato e cresciuto nel quartiere Trastevere, il 15 maggio 1954, Renatino intraprende fin da ragazzo la carriera nella criminalità.
Dapprima solo scippi, fino a passare poi alle rapine, unendosi ai malavitosi del quartiere Appio-Latino.
Dopo una serie di andirivieni dalla galera, a metà degli anni ’70 decide di fare il salto di qualità. Quando a Franco Giuseppucci, incaricato di custodire le armi per conto terzi, tra cui quelle di De Pedis, viene rubato il Maggiolone con dentro le armi, riesce a recuperarle contattando Maurizio Abbatino, capo della banda San Paolo a cui faceva riferimento Emilio Castelletti, autore del furto. Fu in quel momento che Giuseppucci, Abbatino e De Pedis decisero di unire le forze e dare vita ad una nuova “batteria” criminale che di lì a poco divenne la “banda della Magliana”, dal nome del quartiere romani dove abitavano la maggior parte dei membri del gruppo.
La banda fu capace di riunire sotto la sua ala tutte le frange criminali della Roma dell’epoca e spodestare i Marsigliesi dal giro d’affari della Capitale.
Il senso per gli affari di De Pedis consente alla banda di crescere e prosperare in fretta. L’unico a non aver mai fatto uso di stupefacenti e molto parsimonioso, investì i proventi delle rapine in attività legali.
Il salto di qualità avviene quando la banda sequestra il duca Massimiliano Grazioli Lante della Rovere, il 7 novembre 1977. L’inesperienza e la foga del momento, portò la banda a commettere un grave errore: il duca morì, ma loro intascarono il riscatto di due miliardi. Nonostante De Pedis non avesse partecipato alle operazioni del sequestro, perché in prigione, ottenne ugualmente quindici milioni di lire.
Enrico De Pedis: come muore
Forte anche della prematura scomparsa di Giuseppucci e della fuga di Abbatino, il controllo della banda, ormai cresciuta a dismisura, rimane nelle mani di De Pedis che stringe accordi con esponenti di spicco della mafia siciliana, con lo scopo di investire delle ingenti somme di denaro in campo finanziario ed edilizio.
Negli ultimi anni della sua vita, De Pedis voleva quasi cancellare il suo passato criminoso. Sicuro del patrimonio che aveva accumulato, che gli consentiva agiatezza e rispetto, investì nel campo dell’arte e iniziò a non distribuire più i proventi delle attività ai suoi ex complici e ai loro familiari, dal momento che la maggior parte degli introiti provenivano da attività personali. Ma gli altri non accettarono questa decisione e così progettarono la sua morte.
La prima volta ci provò Edoardo Toscano, nel 1989, fallendo. De Pedis fu più scaltro. Fiutato il pericolo, attirò Toscano in un’imboscata e lo fece uccidere dai suoi fedelissimi.
Ben più fortuna ebbe Marcello Colafigli. Uscito di prigione e rimessosi a capo della fazione dei maglianesi, convinse Angelo Angelotti, uomo fidato della banda, a fissare un appuntamento con Renatino a via del Pellegrino, vicino Campo de’ Fiori.
Terminata la conversazione con Angeloni, De Pedis salì a bordo del suo motorino quando venne affiancato da una motocicletta con a bordo due killer (pare si trattasse di Dante Del Santo detto "il cinghiale" e Alessio Gozzani, poi scagionato dall’accusa, ricaduta su Antonio D’Inzillo) che gli spararono un colpo alle spalle, uccidendolo all’istante. Aveva 36 anni.
Enrico De Pedis: i funerali e il giallo sulla sepoltura
I funerali di De Pedis furono officiati nella Basilica di San Lorenzo in Lucina e la salma venne seppellita dapprima nel Cimitero del Verano e poi traslata nella cripta della Basilica di Sant’Apollinare, tra l’indignazione e lo sdegno dei fedeli.
Il Vicariato di Roma ne autorizzò la sepoltura dopo che il rettore della Basilica, Mons. Piero Vergari attestò che in vita De Pedis si era adoperato per i poveri.
Sette anni dopo la morte, la DIA (Dipartimento Investigativo Antimafia), su ordine del giudice Andrea De Gasperis, chiese di indagare sulla sepoltura dell’ex leader della banda della Magliana.
Il Vicariato non ritenne opportuna l’estumulazione, ma le indagini andarono avanti finché si conclusero nel giugno del 2012. In seguito, la salma fu traslata, il corpo cremato e le ceneri vennero sparse in mare, secondo la volontà della vedova De Pedis.
Enrico De Pedis: il coinvolgimento nel caso Orlandi
Nel 2008 iniziò a materializzarsi l’ipotesi che De Pedis fosse in qualche modo coinvolto con la sparizione della giovane cittadina vaticana, Emanuela Orlandi, scomparsa all’età di 15 anni, proprio nei pressi della Basilica di Sant’Apollinare.
Le dichiarazioni rilasciate dall’ex amante di Renatino, Sabrina Minardi, rivelarono che fu proprio lui a eseguire materialmente il sequestro per ordine di monsignor Paul Marcinkus, capo dell’Istituto per le Opere di Religione (IOR).
Sempre secondo la confessione della Minardi, la Orlandi venne assassinata dopo sei/sette mesi dal sequestro e il suo cadavere occultato in una betoniera nei pressi di Torvajanica, assieme ai resti di Domenico Nicitra, figlio undicenne di un ex appartenente alla banda della Magliana, il siciliano Salvatore Nicitra.
Tuttavia, le dichiarazioni della Minardi non vennero mai riscontrate e spesso furono oggetto di contestazione, ritenute poco attendibili, non solo perché non precise - il piccolo Nicitra scomparve nell’estate del 1993, tre anni dopo la morte di Renatino - e probabilmente alterate dall’uso di droghe.
Celeberrima la telefonata del luglio del 2005 al programma televisivo “Chi l’ha visto?” quando venne fatta questa segnalazione:
“Riguardo al fatto di Emanuela Orlandi, per trovare la soluzione del caso, andate a vedere chi è sepolto nella cripta della basilica di Sant’Apollinare, e del favore che Renatino fece al cardinal Poletti, all’epoca, e chiedete al barista di via Montebello, che pure la figlia stava con lei…”.
Inoltre, occorre evidenziare che anche altri membri della banda, tra cui Antonio Mancini e Abbatino, grande accusatore e collaboratore di giustizia, hanno puntato il dito contro De Pedis circa un suo coinvolgimento nella scomparsa Orlandi, proprio in virtù del rapporto tra Renatino e alcuni esponenti del Vaticano.
Al momento dell’apertura della bara, accanto ai resti di De Pedis, non vennero ritrovati quelli di Emanuela Orlandi.
La Corte Suprema di Cassazione ha sentenziato che Marcello Colafigli detto anche “Marcellone”, all’ergastolo per l’omicidio (tra gli altri) del boss Enrico De Pedis, deve restare in carcere perché considerato ancora pericoloso.
Renzo Danesi, Antonio Mancini, Fabiola Moretti, Raffaele Pernasetti sono liberi e considerati “innocui”, mentre Abbatino vive con il terrore costante di essere ucciso, anche in seguito alle rivelazioni sull’omicidio Pecorelli e alle minacce giunte al suo avvocato (Alessandro Capograssi).
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